Ho guardato per caso la prima puntata di questo sceneggiato televisivo e poi, come sempre succede, cedendo alla tentazione, ho visto anche la seconda. Forse non arriverò ad assistere a tutte le serate programmate, ma la trasposizione in fiction della vita di Totò Riina è senza dubbio interessante e debbo confessare che m’ha appassionato. Probabilmente comprerò anche il libro di Bolzoni e D’Avanzo. A differenza dei soliti serial di produzione nostrana, questo mi sembra pure girato benino e risulta avvincente e ben scandito, tanto da far soprassedere su quegli eccessi melodrammatici e sulle pose teatrali che troppo spesso caratterizzano la maniera poco naturale d’interpretare dei nostri attori d’ultima (e penultima) generazione. Claudio Gioé, al contrario, spicca per il suo essere convincente e credibile nel ruolo del boss. Gli altri, certo, un po’ meno. Qualche appunto per ambientazioni e inevitabili blooper ma, nel complesso, robetta.
Tuttavia, ciò di cui sono arcisicuro, è che questa serie non porterà gran contributo alla lotta alla mafia. I malavitosi ne escono dipinti come eroi romantici, cavalieri impavidi e coraggiosi, personaggi effettivamente “di rispetto”, in un contesto in cui è lo stato italiano l’unico vero imputato latitante.
Quei giovani che avessero deciso di rinunciare a una serata con gli amici per restare di fronte alla tivù, è facile rimangano più affascinati che contriti dalle gesta avventurose e dalla vita "piena" dei vari Liggio, Riina, Provenzano. Cioè, dalla vita che viene loro attribuita nel serial, soprattutto se confrontata col grigiore d’un alternativo eventuale destino da precario di call-center. Un po’ quello che avvenne col “Padrino” di Coppola, che subì l’accusa, piuttosto fondata invero, d’aver collocato la mafia italo-americana in una dimensione eroica, a dispetto dell’assai differente realtà .