IN HOC SIGNO VICES

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In Mesopotamia la scrittura fu il presupposto per la nascita di tutta una serie di attività intellettuali, prima tra le quali l’interpretazione divinatoria dei suoi segni.

La divinazione assunse con ciò un livello specialistico, tale da richiedere necessariamente l’intervento di soggetti istituzionali conoscitori delle apposite tecniche che consentivano il passaggio dalla protasi all’apodosi, in un modello molto simile a quello poi sviluppatosi in Grecia e a noi certamente più noto (se “p” allora “q”). Poiché la scrittura cuneiforme, nella sua forma primitiva, attestata tra il IV e l’inizio del III millennio, è pittografia, l’abbinamento tra significanti e significati risulterà dapprima  molto complesso e scevro di opzioni non univoche.

Successivamente, all’incirca un secolo dopo la sua nascita, si registra un progressivo scollegarsi tra il pittogramma e le cose che esso avrebbe dovuto raffigurare e ciò in ragione principale del carattere monosillabico di svariate parole e la frequenza di omonimie fonetiche.

Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si ebbe l’abbandono totale dell’ideogramma in favore di soli segni di sillabe che avrebbero portato a un alfabeto sillabico perfetto. Accanto agli uni resistettero gli altri, contribuendo a favorire quel complesso gioco di inferenze che involontariamente permettevano di trarre dal segno scritto il messaggio divino che necessitava d’interpretazione.  Si creò così e conseguentemente un’aristocrazia di soggetti “esperti”, capaci d’interpretare i segni della scrittura.

Nei copiosi trattati divinatori sopravvissuti e giunti sino a noi, il passaggio dalla protasi-presagio all’apodosi-oracolo sembrerebbe  del tutto casuale e privo di regole. In realtà esso viene collocato sistematicamente dagli studiosi del linguaggio in tre precise categorie: la prima è detta “empirismo divinatorio”; la seconda “associazionismo tra elementi”; la terza, infine, “codificazione esauriente”.

Con l’empirismo divinatorio si registravano a posteriori coincidenze significative tra determinati accadimenti storici e qualsiasi fatto o evento che venisse giudicato “ominoso” rispetto all’accadimento medesimo. Tali coincidenze avrebbero raggiunto in seguito valore paradigmatico.

Un esempio si ha con il plastico di Mari, che riproduce la forma assunta da un fegato esaminato durante un rito di estipicina; viene registrata meticolosamente la coincidenza tra tale aspetto del fegato – posto come presago – e la rivolta contro Ibbi-Sin, ultimo re del periodo neosumerico.

Nell’associanismo tra elementi si possono verificare due condizioni alternative nel gioco associativo: la prima, sui significati; la seconda, sui significanti. Nel caso dei significati, si relaziona l’evento “segno” ad una conseguenza  tramite l’uso della metafora in un legame di chiaro ordine simbolico: l’eclissi, ad esempio, varrà ad indicare la morte del re, in un rapporto tra protasi e apodosi di questo tipo: “Se il 29 del mese di Aiiar si verifica un’eclisse di sole – il re morirà, duramente punito da Samas; mortalità generale”.

I significanti, invece, vengono utilizzati principalmente in relazione all’affinità fonetica e alla somiglianza, che farebbe sì che un fatto indicato dalla parola con un certo suono, venga considerato segno di un altro fatto espresso da un’altra parola di suono affine.

Infine, abbiamo i cosiddetti codici sistematici, caratteristici dei periodi più recenti della cultura mesopotamica, che prevedono casistiche generali ed esaustive di rapporti tra segni ed eventi. Non vengono più registrati solo casi effettivamente osservati, bensì si tenta di astrarre tutti i casi virtualmente possibili, sistemandoli in un contesto basato su opposizioni e regole precise.

Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dicotomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All’estrema complessità e particolarizzazione degli oracoli più antichi si contrapporrà l’estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no”.

(per saperne di più: “Le teorie del segno nell’antichità classica” di Giovanni Manetti – Bompiani, Milano, 1987)

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