Se c’è una cosa che ha sempre bruciato a Santa Romana Chiesa e che continua a bruciarle più che al diavolo l’acqua santa, è quel famoso inciso tratto dalle sette beatitudini, che i vangeli vogliono pronunciate da Gesù sulla montagna, “beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli”.
Del resto, è umano e comprensibile. Non può non dare fastidio a chi si crede “eletto” da una divinità, sentirsi ripetere a più voci che questa divinità, in fondo, predilige gli imbecilli. Infatti “povero di spirito” è inteso, nel linguaggio comune, come “credulone”, “sciocco”, “stupido”, “minus habens”, e v’è pure chi ha voluto vederci la ragione di quell’etimo che farebbe derivare la stessa parola “cristiano” da “cretino”, che di “povero di spirito” non è che l’ennesima variante.
Ecco qui di seguito un esempio di quali voli pindarici si siano dovuti affrontare e quante spiegazioni si siano dovute inventare per provare a cancellare un’equivalenza senza dubbio fastidiosa ma oramai sedimentatasi nell’immaginario collettivo, a dispetto d'ogni dotto e meno dotto argomento contrario della chiesa cattolica.
“L’espressione "in spirito" è praticamente intraducibile in ebraico o in lingua semitica; quindi, sicuramente, è un’espressione greca, aggiunta dal redattore greco. Ci chiediamo allora per quale motivo è stata aggiunta; il motivo è che il termine "povero", da solo, non rendeva l’idea. In greco si adopera, sia in Matteo che in Luca, il termine ptochòs, una parola che indica il povero radicalmente povero – dalla stessa radice, in italiano, deriva "pitocco" – quindi non la persona che non è nell’abbondanza economica, ma proprio il misero, il barbone.
Nel linguaggio greco comune si intendeva con "povero" la persona che deve lavorare per vivere – il concetto di "ricco" equivale a chi ha un patrimonio sufficiente per cui non deve lavorare – , mentre il termine ptochòs indica colui che si trova nella miseria più nera, il mendicante.
Ora, i primi traduttori del Vangelo non erano "professori" di entrambe le lingue, erano persone semplici e non erano partite con l’intenzione di compiere un lavoro filologico, ma, ricevuta un’espressione da Gesù, hanno cercato di comunicare le stesse idee a persone che parlavano un’altra lingua, sono stati costretti a tradurre. La domanda che ci siamo fatti verte allora sulla parola che avrà adoperato Gesù; anche qui gli studiosi sono convinti che la parola ebraica adoperabile era anawîm, un termine tecnico per indicare sì i poveri, ma un certo tipo di poveri: gli anawîm sono i "poveri di Dio", nel senso di persone con una particolare spiritualità, le persone che si fidano di Dio e si affidano a lui. Luca mette in scena diversi personaggi del genere, ad esempio nei Vangeli dell’infanzia: Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna, Maria e Giuseppe; essi sono caratterizzati come gli anawîm, secondo un linguaggio tradizionale dei profeti e della religiosità giudaica. Ma il concetto di anawîm, tipicamente semitico, non è assolutamente reso bene in greco con ptochòs; si tratterebbe di una traduzione "a calco", una parola che ne rende un’altra meccanicamente; ma cambiando cultura non si può fare questo passaggio meccanico. Ecco allora che la redazione di Matteo, proprio per essere fedele all’originale, deve aggiungere qualcosa e decide di aggiungere un dativo di relazione: poveri to pneumati. Quello "spirito" è inteso proprio in senso greco e non significa "poveri di spirito", cioè che ne hanno poco; "poveri in spirito" indica una ben precisa specie di povertà, dove lo spirito determina la condizione, l’ambiente, il pensiero: non quelli che hanno poco pensiero, poco spirito, poca intelligenza, poca coscienza, ma quelli che sono "poveri" e hanno la consapevolezza di esserlo. Dunque, l’atteggiamento che è messo in evidenza è proprio quello della consapevolezza della propria "povertà". Non è un discorso di tipo economico o sociale, non è una povertà determinata dal conto in banca o dalla condizione sociale, dal mestiere o da altre situazioni del genere: è una povertà "in spirito", cioè il riconoscimento della propria povertà personale.
Ci chiediamo allora che cosa significhi "povertà" in questo senso e potremmo comprenderne meglio il significato adoperando la parola "dipendenza": il povero non è autonomo, non è indipendente, il povero dipende da qualcuno, da un altro. La persona umana prende consapevolezza di essere "dipendente", di avere bisogno di un altro, riconosce il proprio limite, la propria debolezza, le proprie mancanze, la propria fragilità.
Il contrario di "povero in spirito" non è semplicemente "ricco in spirito", ma è superbo, presuntuoso, arrogante. Il contrario di questa povertà è il concetto di "autarchia", è l’idea di chi pensa: io basto a me stesso, io faccio da solo, sono autosufficiente, non voglio darti a vedere di avere bisogno, non voglio dipendere. È questo il contrario della "povertà in spirito", mentre il concetto di anawîm è quello di colui che, riconoscendo la propria povertà e debolezza, riconosce di dipendere da Dio.
Umanamente, chi si scopre in questa situazione di debolezza sembra afflitto, triste, sente questa propria dipendenza, sente il proprio limite come un elemento negativo che pesa, che schiaccia, che umilia. Il Vangelo di Gesù invece vuole evidenziare come proprio questa consapevolezza del proprio limite, della propria debolezza sia la condizione della felicità.” (don Claudio Doglio).
Com’era quel famoso brocardo latino? Ah, sì, perdonatemi, quasi mi dimenticavo: è scritto nel titolo del post!
'Azzarola, stai parlando di Alkall, Dtc ecc. ovvero di imbecilli ( da in -baculus = senza bastone, senza sostegno ( in senso più lato senza argomenti ) ecc. da cui il mitico abbacchio del quale sono particolarmente goloso ?…… non ci posso credere !
Li troveranno sicuramente suicidati e con un marea di bozzi sul cranio*.
* Si saranno, sicuramente, suicidati impiccandosi con una corda elastica !
Ciao
Son d'accordo con te. Una delizia: ad esempio, mai mangiato le costicine d'agnello così buone come a Roma!
Devi provarle al Portico d'Ottavia ( ex Ghetto; ottima cucina ebraica ) accompagnate dai Carciofi alla Giudia ( impossibile trovarli altrove, anche se qualcuno li tarocca; li fanno lessi, anziché fritti ).
Ma puoi trovare anche l'incommensurabile ' abbacchio brodettato " tipicamente sardo !
Ciao
( se vuoi, siccome mi diletto anche a cucinare, ti mando qualche semplice ricetta, sempre romanesca )…dopotutto anche la culinaria è cultura…
Di nuovo
Grazie mille. Non ti garantisco che avranno un seguito pratico – mia moglie odia cucinare e nel contempo non permette a nessuno di avvicinarsi ai fornelli – ma sono curioso di sapere come si preparano.
@ lector
http://www.gingerandtomato.com/per-vegetariani/come-fare-i-carciofi-alla-giudia/
Raccomandazione: Usare carciofi cimaroli o mamole
( senza spine e " baffi " ), l'acqua deve essere freddissima.
Al termine della cottura le brattee devono essere color oro e croccanti !
Prova oppure quando capiti a Roma recati al Portico d'Ottavia e cerca tra i ristoranti tipicamente ebraici ( cucina Kosher/Kasher ).
Ciao
Io li ho mangiati favolosi "Da Nino", vicino a Piazza di Spagna. Devo dire che ho mangiato benissimo anche "Al matriciano". So bene dov'è il Portico d'Ottavia (vicino alla Sinagoga), e la prossima volta che vado a Roma, penso proprio che andrò a mangiare lì. Grazie per il consiglio e per la ricetta.