SALEM E’ SEMPRE QUI

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La strega delle streghe di S. Nucini

Patrizia era maestra d’asilo a Rignano. Col marito e altri colleghi è finita in carcere per pedofilia. Ora, dopo 8 anni, sono stati tutti assolti. E qui ci raccontano la loro vita «in una prigione senza sbarre» (tratto da qui)

La storia in cui hanno perso tutti inizia il 9 luglio del 2006 con una denuncia dei genitori di N, quattro anni, che da qualche tempo è strana e ossessionata dai genitali, i suoi e anche quelli del cane. Dice che a scuola giocano così, a toccarsi le patatine «come ci ha insegnato la signora». La scuola è la materna Olga Rovere, la signora, dirà poi la bambina, si chiama Patrizia.
Patrizia si chiama anche la signora che mi apre la porta.Patrizia Del Meglio, ex insegnante della materna Olga Rovere. All’ingresso accanto a lei c’è anche suo marito Gianfranco Scancarello. Entrambi sono stati imputati – insieme con le maestre Marisa Pucci, Silvana Malagotti, la bidella Cristina Lunerti e nella fase iniziale anche il benzinaio del paese Kelum Weramuni – nel processo per presunti abusi sessuali a carico di 21 bambini di Rignano. È iniziato otto anni fa e si è concluso il 16 maggio di quest’anno con la sentenza della terza Corte d’Appello di Roma. Tutti assolti con formula piena «perché il fatto non sussiste».

il. fatto. non. sussiste. Lo scandisce così, mettendo i punti tra una parola e l’altra, Gianfranco Scancarello, e in ogni punto si intuisce un groviglio di sentimenti in cui però nessuno assomiglia alla gioia. «Solo al sollievo, forse», dice sua moglie. Maestra d’asilo lei, ex maestro elementare prestato alla televisione dei ragazzi lui, si trasferiscono a vivere da Roma a Rignano Flaminio nei primi anni ’80. Lui collabora con la Rai, lei comincia a insegnare subito in quella scuola dove per 22 anni crescerà generazioni di rignanesi, prima pochi e poi tantissimi, quando la città diventa un quartiere dormitorio di Roma. «Senza un piano di sviluppo, solo mattoni. E chissà che c’entri anche questa mancanza di spazi d’incontro e di cultura in tutto quello che è successo», dice Scancarello. 
Il 12 ottobre del 2006, alle 6 del mattino, suonano alla loro porta. Quando Patrizia apre vede una trentina di carabinieri, alcuni hanno i fucili, alcuni le tute bianche del Ris. Scancarello viene subito portato nei suoi uffici, lei e i quattro figli seduti al tavolo. La notifica della perquisizione appoggiata in mezzo
a loro la leggeranno anche i ragazzi, inclusa la piccola che allora ha 11 anni.
Tre giorni dopo Patrizia torna a scuola, indice una riunione coi genitori dei suoi bambini. «Gli ho detto: usate la vostra testa per decidere. Sapete chi sono. Sono innocente. Un padre mi ha chiesto di fare un passo indietro, invece ho continuato a lavorare. Per tre mesi. Poi, non ce l’ho fatta più». Il giorno dopo la classe è vuota. Piano piano ritornano, ma solo 16 dei 25 bambini che c’erano prima «e più per necessità che per convinzione», pensa lei. 
«Perché noi?» è una cosa che si sono chiesti quasi ogni giorno, in tutti questi anni, senza riuscire a darsi una risposta. Solo Gianfranco crede che la sua attività di autore televisivo possa fornire un appiglio: «Nelle fantasie malate c’è sempre qualcuno che usa la telecamera». «Contagio dichiarativo» è l’espressione che ripetono più spesso quando si parla dei motivi che possono aver portato 21 famiglie a sporgere denuncia. 
Non è la prima volta. Negli anni Ottanta la collina su cui sorgeva la scuola McMartin, a Manhattan Beach, California, fu sventrata dalle ruspe. Si cercava una grotta in cui quaranta bambini raccontavano di essere stati violentati. Si scoprì poi che quella grotta era un disegno fatto da un maestro perché i bambini ci buttassero dentro le loro paure. I bambini si erano inventati tutto, ma intanto Ray Buckey, il principale accusato, aveva fatto 5 anni di carcere.
«Non mi spaventa la caccia alle streghe», dice Scancarello, «ma il sonno della ragione. Chi è preposto a controllare non può farsi trascinare nella psicosi. E certa psicologia infantile nemmeno. In udienza un perito ha detto che – siccome uno dei bambini si tappava le orecchie e tirava su con il naso e questo gesto procura un piacere spineale che arriva all’ano – questa era la prova della subita violenza».
Il carcere arriva nell’aprile del 2007, dopo mesi che comunque sono un inferno. Sulla via Flaminia qualcuno scrive «morte ai pedofili», a casa arrivano lettere di minacce. La prigione è in isolamento per entrambi. Patrizia viene sottoposta a una visita ginecologica con colposcopia, Gianfranco pensa che non ce la farà: «Quando ti sussurrano che tu da lì uscirai solo con le gambe davanti, quando ti passano un piatto che preferisco non descrivere, ma solo definire immondo, pensi che impazzirai».
Il motivo di questa carcerazione preventiva va ricercato nella frase che gli inquirenti a un certo punto pronunciano: «Serve per dare una smossa alle indagini». «Volevano che crollassi, e invece no», dice Patrizia. «In quei 17 giorni in prigione, rileggendo cento volte la mia istanza di carcerazione, ho capito: dovevano trovare la strega delle streghe, ed ero io».Intanto il paese si spacca: chi mette gli striscioni e chi, invece, organizza fiaccolate per dire: noi non crediamo a questa follia. Le persone che hanno lavorato con Gianfranco in Rai e Mediaset raccolgono 300 firme che lo fanno sentire meno solo.
«Abbiamo vissuto tutti questi anni in una prigione senza sbarre. Abbiamo perso tutto: casa, progetti, lavoro. Sempre guardati con un punto interrogativo. Prima di venire a vivere a Milano, ci siamo trasferiti a Roma. Ma non è stato facile trovare chi ci vendesse la casa: persino a contratto già firmato, volevano tirarsi indietro, non avere problemi».
Anche i figli si portano dietro il peso di un cognome e una storia pesanti: «Ci sono sempre stati vicini, ma la nostra famiglia è cambiata per sempre. Ci siamo dovuti ricostruire, perché puoi mettere in conto tante cose nella vita – che morirai, che perderai tutto –, non di diventare un pedofilo, un mostro. E neppure di diventare il figlio di un pedofilo, un mostro. Non ho sentito nessuno spendere una parola di pietà per i figli nostri e per le altre persone coinvolte».
A Milano vivono da due anni, in un anonimato rassicurante. «Chissà se i vicini sanno chi siamo. Di certo non ci presentiamo raccontando la storia. Anche se certe volte penso che sarebbe più giusto e chiaro per tutti. Qui siamo entrati con la dignità di chi paga un affitto e ha la fedina penale pulita».
Chiedo se essere andati via da Rignano sia stata, alla fine, una forma di sconfitta. Mi risponde Gianfranco: «Né vittoria né sconfitta. Abbiamo perso noi e hanno perso i bambini, la cui vita sarà per sempre segnata da quella storia e quel processo. Ha perso la Giustizia – lo scriva col maiuscolo – e il concetto di Giustizia – sempre col maiuscolo, la prego. Hanno perso i cittadini: in 8 anni di iter processuale sono stati spesi un mucchio di soldi. Io non ho le fatture, ma qualcuno lo ha scritto: 2 milioni e mezzo di euro. Ha perso anche il racconto della verità: pure adesso, dopo la sentenza, dopo che 12 giudici hanno riconosciuto che il fatto non sussiste, leggo ancora titoli ambigui, mi fanno male. A Outreau, in Francia, è successa una storia simile. Dopo anni il pubblico ministero è andato in televisione a dire: chiedo scusa, ho sbagliato. Servirebbe anche qui, sarebbe un atto di giustizia verso quei bambini e le istituzioni di questo Paese».
A un certo punto, al paese, qualcuno ha fatto delle magliette. Sopra c’era scritto: la verità non ha paura. «È la frase che mi diceva mia madre: Gianfranchino, di’ sempre la verità, perché la verità non ha paura. Abbiamo tenuto duro pensando a questo. E in tutto il male di questa vicenda una cosa buona l’ho capita. Io, noi, tutti, siamo molto più di quanto crediamo di essere. Più forti, più capaci di reggere i colpi, più attaccati alla vita». 
Chiedo anche a Patrizia se c’è stato qualcosa di buono che questi 8 anni le hanno lasciato. «Ricordo il primo giorno in cui incontrai il nostro difensore, l’avvocato Coppi. Gli dissi: professore, questa è la verità, io sono innocente. Mi disse:attenta, signora. C’è la verità e poi c’è la verità giudiziaria. Non sempre coincidono. Da quel momento qualcosa dentro di me è cambiato. Mi sono chiesta come avevo vissuto fino ad allora, con quali occhi avevo guardato la vita, il mondo. Da allora ho cambiato la prospettiva sulle cose. Non lo so se, però, questa è una cosa buona».

Pubblicato da hannibalector

"Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti gli altri compagni"

2 Risposte a “SALEM E’ SEMPRE QUI”

  1. @”attenta, signora. C’è la verità e poi c’è la verità giudiziaria. Non sempre coincidono.”

    Praticamente la radiografia dell’italia in una riga.

    Il minuscolo è voluto.

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