<<Penso che quasi tutti noi [1] condividessimo come cosa ovvia, su cui non c’era pressoché bisogno di discutere, questi tre punti: in primo luogo, la concezione che l’uomo non ha protettori né nemici soprannaturali e che, pertanto, qualsiasi cosa si possa fare per migliorare la vita è compito dell’uomo stesso; in secondo luogo, la convinzione che l’umanità è in grado di cambiare le condizioni di vita in maniera tale che molte delle sofferenze attuali possono essere eliminate, e che la situazione esterna ed interna di vita dell’individuo, della comunità e, infine, dell’umanità sarà essenzialmente migliorata; in terzo luogo, la concezione che ogni azione deliberata presuppone conoscenza del mondo, che il metodo scientifico è il metodo migliore per acquistarla e che la scienza deve, pertanto, essere considerata uno degli argomenti più preziosi per il miglioramento della vita. A Vienna non avevamo attribuito nomi a questi tre punti di vista; se cerchiamo nella terminologia americana una breve designazione per la combinazione di queste tre condizioni, la migliore sarebbe quella di “umanesimo scientifico”>> (Ed. Il Saggiatore, Milano, 1974)
[1] Carnap sta parlando del Circolo di Vienna
Queste discussioni di carattere politico, per ammissione dello stesso Carnap, non avvenivano nel Circolo, riservato ai problemi teorici relativi alla filosofia analitica.
Una sola considerazione. Sul piano etico condivido ovviamente tutto; ma la vita di ciascun essere umano è molto breve se confrontata al tempo richiesto per il processo di realizzazione degli obiettivi anelati da Carnap. Il singolo individuo, fortemente competitivo, che “truffa” la collettività (dunque, la propria specie) per un tornaconto egoistico, ottiene un guadagno immediato a fronte d’un ipotetico beneficio futuro che potrebbe derivare ai suoi lontani discendenti da un diverso comportamento definibile come cooperativo. Non solo: se il suo “barare” ha successo, con molta probabilità conseguirà un vantaggio di posizione non esclusivamente proprio, ma anche futuro per la sua progenie. Pensiamo, come esempio banale, a quella importante famiglia italiana che ha costruito con cinismo gran parte delle proprie fortune sulle migliaia di morti della Grande Guerra e i cui appartenenti ancor oggi (e chissà sino a quando) godono d’uno status e di privilegi negati ai più. Il possesso di danaro, di prestigio, di potere – comunque ottenuti – crea perciò un effettivo vantaggio competitivo, che paradossalmente si traduce quasi sempre in maggiore opportunità di procreare e, dunque, di far prevalere i propri geni su quelli dei concorrenti. Se tali geni trasportano come prevalente il carattere competitivo (dimostratosi vincente), anziché il contrario, c’è di che dubitare della realizzabilità concreta dei buoni propositi dell’umanesimo scientifico.