LE ALTERNATIVE AL PENSIERO UNICO di Alessio Surian

http://lists.peacelink.it/economia/2005/01/msg00013.html

estratto da Il Parco dell’Aspromonte ha ospitato dal 23 al 28 Settembre
la prima Scuola Estiva "Oltre il pensiero unico?,

una settimana laboratorio su antiutilitarismo, ecologia ed economia-etica.

curve dImboccare la decrescita
Serge Latouche e Mauro Bonaiuti si sono incaricati di mettere al centro della riflessione comune il tema della decrescita quale strada principale per rimediare all’attuale deriva neoliberista. Per Latouche decrescita non significa necessariamente un immobilismo conservatore: l’evoluzione e la crescita lenta delle antiche società si integravano in una riproduzione allargata ben distribuita, sempre adattata alle costrizioni della natura. La società vernacolare è sostenibile perché ha adattato il proprio modo di vivere all’ambiente circostante» conclude Edward Goldsmith, mentre la società industriale non può sperare di sopravvivere perché, al contrario, si è sforzata di adattare l’ambiente circostante al proprio modo di vivere. Pianificare la decrescita significa, in altri termini, rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che di più significhi meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi a un minor prezzo . La saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano, può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali. “Una persona felice – nota Hervé Martin – non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non compera ogni giorno oggetti tanto costosi quanto inutili, in breve, non partecipa se non minimamente all’attività economica della società”. Una decrescita voluta e ben pensata non impone alcuna limitazione al dispiegarsi dei sentimenti e nella produzione di una vita festosa e addirittura dionisiaca. Richiamando Kate Soper, Latouche ha ricordato come coloro che difendono la causa di un consumo meno materialista siano spesso presentati come degli asceti puritani che cercano di conferire un orientamento più spirituale ai bisogni e ai piaceri: “Ma questa visione è sotto diversi aspetti errata. Si potrebbe dire che il consumo moderno non si interessa sufficientemente ai piaceri della carne, non è abbastanza interessato all’esperienza sensoriale, è troppo ossessionato da tutta una serie di prodotti che filtrano le gratificazioni sensoriali ed erotiche e ce ne allontanano. Una buona parte dei beni che sono considerati essenziali per un livello di vita elevato, svolgono più una funzione anestetica che stimolante l’esperienza sensoriale, sono più avari che generosi in materia di convivialità, di relazioni di buon vicinato, di vita non stressata, di silenzio, di odori, e di bellezza. Un consumo ecologico non implicherebbe né una riduzione del livello di vita, né una conversione di massa verso l’extra-mondanità, ma piuttosto una concezione differente del livello di vita stesso.”

Perché piccolo è – effettivamente – bello
A livello economico decrescita significa innanzitutto riduzione nei flussi materiali di produzione e consumo. Mauro Bonaiuti (Università di Modena) ha quindi sottolineato come questa prospettiva implichi innanzitutto una riduzione delle dimensioni (scala) dei grandi apparati produttivi (imprese trans-nazionali), e, più in generale, delle grandi organizzazioni (tecnocrazie, sistemi di trasporto, cura, svago, ecc.). Il cammino verso un sistema economico e sociale sostenibile non potrà avviarsi seriamente sino a quando non si diverrà consapevoli che la gran parte delle risorse (e del lavoro) sono oggi impiegate – come abbiamo mostrato – non per produrre benessere – ma per alimentare le tecnostrutture stesse. Più è alto il grado di complessità, maggiore è l’entropia, maggiori sono le risorse che tali megamacchine esigono semplicemente per la loro autoconservazione. L’esempio dell’automobile  riportato in precedenza  mostra come una tecnologia più semplice possa essere più efficiente, da un punto di vista sistemico, di una più complessa. L’approccio bioeconomico suggerisce che il benessere è legato, più che ai flussi di beni e servizi prodotti, alle condizioni delle strutture (stocks) che intervengono nel processo di produzione e consumo. Come accade nell’universo biologico, in cui gli organismi non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile, ma utilizzano risorse e assumono dimensioni adeguate al contesto ecologico in cui vivono, così le strutture economiche (impianti, beni durevoli, ecc.) dovrebbero essere ripensate secondo forme e dimensioni tali da garantire una duratura capacità di produrre benessere in condizioni di minima dissipazione entropica. Le condizioni per un benessere duraturo non si ottengono, infatti, puntando sulla massimizzazione dei flussi di reddito e consumo a breve, quanto piuttosto cominciando ad immaginare e a realizzare strutture (tecnologie, beni durevoli, relazioni sociali), in grado di sostenere un buon livello di benessere, in modo duraturo, pur dissipando quantità modeste di materia/energia. Questo non significa affatto invocare un ritorno al passato, né tanto meno avere come unico obbiettivo la minimizzazione dei flussi di risorse naturali.
È possibile chiarire questo punto con un semplice esempio. Da un punto di vista entropico, é certamente meglio per il pescatore dedicare un certo ammontare di lavoro e di risorse per costruirsi una rete, od una barca da pesca (stock), piuttosto che affidarsi alla semplice pesca con le mani. Questo significa che, da un punto di vista bioeconomico, non si auspica la minimizzazione nell’uso delle risorse, né il regresso tecnologico, né tanto meno lo sciopero dell’ingegno. Ingegno, risorse naturali, e lavoro andrebbero finalizzati – tuttavia – alla cura e alla progettazione di quegli stock (sistemi naturali, impianti, beni durevoli, relazioni sociali, valori) che sono in grado di produrre benessere in modo duraturo, pur utilizzando quantità modeste di risorse ed energia. In altre parole, tali soluzioni ricercano le migliori combinazioni tra complessità, benessere ed entropia, nella consapevolezza che, generalmente, le soluzioni più complesse sono anche le più energivore. In generale occorrerà spostare il baricentro dell’attenzione, nel processo economico, dai flussi agli stocks (naturali, economici, relazionali) in quanto questi ultimi sono in grado di sostenere un benessere (più) duraturo, pur con modesti apporti di materia, energia e lavoro.

Dis-apprendere lo sviluppo
Gli aspetti più strettamente educativi sono emersi con il lavoro di Davide Biolghini (in particolare sulla RES) ed Enrico Euli sulle reti e con la riflessione di Marco Deriu sul dibattito attorno al tema dello sviluppo e della globalizzazione. Per Deriu tale dibattito si è in gran parte arenato nella celebrazione del concetto di sviluppo sostenibile che a livello ideale sembrava potesse mettere d’accordo tutti o quasi tutti. Il suo intervento si è quindi concentrato sull’ambivalenza del paradigma della sostenibilità, con le sue due possibili interpretazioni e prospettive, fondamentalmente opposte: da una parte una sostenibilità, quella implicita nell’idea di sviluppo sostenibile che spinge in direzione di una tecnocrazia ecologica, dall’altra un’idea di ecologia sociale, che spinge ad una ridiscussione radicale dei fondamenti del nostro immaginario culturale.
Nel primo caso afferma Deriu – il concetto di sostenibilità arriva a rappresentare in una forma aggiornata e più sottile il vecchio approccio scientifico e in seguito economico-produttivo di un possibile dominio e controllo sulla natura da parte dell’uomo. Nel secondo caso, al contrario l’idea di sostenibilità rappresenta una possibile porta per uscire dalla cornice ideologica in cui si trova la sinistra occidentale. Il tema è stato approfondito con 15 tesi. Per ragioni di spazio ne scegliamo due che richiamano temi cari a questa rivista e sono strettamente legate fra loro.
Secondo Deriu, riconoscere la necessità del limite non è più sufficiente. Il pensiero critico può portarci a riconoscere il problema del limite ma da solo non può condurci all’interno di una mentalità diversa, non può realizzare la sostenibilità e tanto meno la decrescita. Ciò va visto anche in relazione ad un’altra tesi:
Siamo dipendenti da questo sistema e non abbiamo altre alternative che disintossicarci. L’accesso all’epoca del doposviluppo è molto più simile al processo di disapprendimento e di disintossicazione. Ci si deve disabituare a uno stile di vita e anche a una forma mentale e psicologica. La cultura dello sviluppo si costituisce in diverse dimensioni di dipendenza:
Una dimensione di dipendenza politica. Il consenso è legato alla promessa di un miglioramento del proprio status socioeconomico. Il benessere dello sviluppo è qualcosa di posizionale, ovvero si misura in rapporto a quelli che stanno peggio (Hirsh). la decrescita non è un obiettivo politico attraente. A meno che non si riesca a far emergere la dimensione di liberazione implicita in questa proposta.
Una dimensione di dipendenza simbolico-antropologica: senza l’idea di progresso, sviluppo e crescita si apre un’angoscia del vuoto (VD al di là dello sviluppo). Nella maggioranza delle persone in Occidente c’è una forma di difesa rispetto all’idea di sviluppo, nonostante le sue contraddizioni e i suoi risultati, dovuta alla paura di abbandonare un riferimento ideale per il quale ci si è tanto impegnati, si è tanto lottato, ci si è tanto sacrificati. Abbandonare il mito dello sviluppo significa confrontarsi con il senso di vuoto, di spaesamento, di mancanza di prospettiva.
Una dimensione di dipendenza materiale: economia, organizzazione, spostamenti, servizi. È evidente che l’intera organizzazione materiale attorno a noi risponde alle logiche di una società di crescita. Il cambiamento delle abitudini si deve confrontare con le resistenze dell’organizzazione materiale.
Una dimensione di dipendenza psicologica: il consumo come bisogno emotivo, relazionale, identitario; gli oggetti come appendici dell’io dell’uomo moderno.
Il quarto livello è il più difficile da affrontare. Nel complesso dunque per quanto possiamo certamente cercare di autolimitarci, tuttavia rispetto a questo genere di cose il semplice volontarismo può avere un impatto molto limitato.

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