LASZLO MERO: CALCOLI MORALI

images[5]Il sottotitolo italiano di questo libro (“teoria dei giochi, logica e fragilità umana”) compendia il percorso dell’autore tra i meandri della razionalità (o irrazionalità) dei comportamenti sociali ed etologici. Con approccio di tipo matematico, nella sua ricerca egli s’avvale d’uno strumento comunque molto noto, almeno di nome, anche tra i non specialisti: la teoria dei giochi.

Sinceramente, non l’ho trovato un libro facile, soprattutto per quello che non dice piuttosto che per ciò che dice. Alcuni ragionamenti, infatti, implicherebbero strutture formali che non sono esplicitate nel libro e la cui assenza, forse, non (mi) consente di coglierne con immediatezza, sia pur sempre in maniera intuitiva, i passaggi. Potrebbe anche trattarsi della traduzione, dall’ungherese all’inglese e poi all’italiano.

Mi è piaciuto particolarmente un concetto, non so se originale o meno, ma su cui confesso di non aver mai riflettuto e che pertanto ho trovato illuminante: alla scienza spetta la valutazione quantitativa del fenomeno, alla filosofia quella qualitativa.

Il dover (o poter) ricorrere a una descrizione di tipo quantitativo per spiegare l’interrelazione tra enti, ne rivela senz’altro l’alterità reciproca quali singolarità di un loro insieme. La dicotomia nell’interesse che si frappone fra individui (ad esempio, i prigionieri), animali (gli spinarelli), a partire dai microrganismi (i geni), risiede nel rapporto di alienazione tra i differenti io. L’impossibilità di condividere omogeneamente con l’altro un’unità di esperienza, costringe a supporne le intenzioni. Interesse, rapporto, condivisione, supposizione sono da intendersi qui in senso meramente biochimico e non implicano perciò necessariamente coscienza. Da questi calcoli d’intenzioni, si deduce che i rapporti tra gli enti risultano regolati da una morale non etica, obiettiva – perché la risultante, cioè il tutto, prescinde dalla somma delle sue parti – e non necessariamente razionale, in quanto non sempre coincidente con la migliore tra le possibili.

Ho letto questo libro principalmente nel contesto di una mia ricerca personale sulla complessità della relazione tra società ed individuo. Il carattere coercitivo delle regole di una comunità nei confronti dei propri appartenenti, fino a che punto realizza l’interesse del singolo? Il sacrificio delle aspirazioni individuali come viene compensato dal realizzarsi d’un presunto bene comune, reputato notoriamente più meritevole di tutela rispetto ai valori egoistici?

Qual è la fonte del diritto di una società a imprigionare o addirittura sopprimere (giuridicamente o biologicamente) un proprio appartenente? Di conseguenza, l’essere cooperativi (adeguarci alle regole) ovvero competitivi (violarle per nostro tornaconto) in che misura ci favorisce o ci pregiudica?

Forse che l’esponenziale incremento demografico, di cui siamo testimoni, ci stia conducendo sempre più verso società totalmente avulse dagli individui che le compongono? In un simile contesto megainterattivo la razionalità (del singolo, delle istituzioni, dei gruppi) potrebbe divenire fattore irrilevante per l'assunzione delle scelte, al di fuori di una dinamica puramente caotica. Scriveva Hegel  “Lo Stato, in quanto è la realtà sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare, elevata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Quest’unità sostanziale è fine a sé stessa, assoluto, immoto, nel quale la libertà giunge al suo diritto supremo, così come questo scopo finale ha il più alto diritto, di fronte ai singoli, il cui dovere supremo è di essere componenti dello Stato”. Ma un “dovere supremo” che non necessiti anch’esso di giustificazione relativa, mi pare un principio tanto apodittico quanto il dio delle religioni.

                     

5 Risposte a “LASZLO MERO: CALCOLI MORALI”

  1. Grazie per l’intervento, Solaria. Adoravo Zanardi. Ho visitato il tuo blog e l’ho trovato particolarmente interessante. A risentirci.

    Ciao 🙂

  2. Io credo che tutto si giochi sulla qualità etica (non disgiunta anche da intelligenza nel senso semplice della parola: un cervello che funziona bene) mano a mano che si sale nella scala gerarchica. Io penso che una certa libertà la debbano avere tutti, ma il raggio di questa libertà deve essere più ampio mano a mano che si sale nel livello di qualità del soggetto. Per fare un esempio: il capo di un piccolo drappello di centurioni aveva un certo ambito di discrezionalità «locale», mentre Cesare in persona aveva un ambito corrispondente all’impero tutto. Le cose funzionano se il livello qualitativo di chi sta sopra è superiore a quello di chi sta in basso nella gerarchia. Di qui l’importanza assoluta della formazione, della scuola, delle strutture atte a formare, forgiare, la classe dirigente. Insomma la «Paideia» di Platone. Questo in termini ideali. Nella realtà è accaduto che in alto ci sono finiti, in Italia sicuramente molto, ma anche altrove, non i migliori ma i peggiori. Tornando alla questione della libertà: ognuno ha diritto ad un suo ambito di libertà, molto privato per chi non ha incarichi decisionali, più ampio per chi ha incarichi decisionali ad ampio raggio. Libertà uguale per tutti, sì, ma estesa oltre il privato solo per chi ne ha la capacità. Certo, è utopia, ma questo secondo me dovrebbe essere l’orizzonte almeno logico del problema. Mamma mia quanto ho scritto, caro Lector

  3. Il fatto che tu abbia scritto tanto mi fa estremamente piacere perché significa che l’argomento ti stimola; almeno, questa è la mia impressione.
    Destra e sinistra, parafrasando il Metternich, potremmo oramai definirle come “mere espressioni geografiche” (volevo aggiungere, “dopo l’avvento di Renzi” ma, al di là della facile battuta, non sarebbe né vero né onesto).
    Se ho ben compreso quello che affermi, vorresti dire che il grado di libertà sale in relazione alla scala gerarchica e che una società giusta dovrebbe porre ai vertici del sistema solo coloro che meglio saprebbero amministrare il maggior grado di libertà che viene ad essi concesso.
    Ho i miei dubbi in proposito. Conosco persone intelligentissime ma tutt’altro che “buone”, capaci grazie alle loro indubbie doti intellettuali di ridurre il prossimo a mero strumento delle proprie aspirazioni.
    Io, invece, sarei più portato a ridurre tutto a “chimica”. Mi sto formando l’idea che ciascuno di noi abbia ereditato dai primi microrganismi due fondamentali tendenze: quella ad aggregarsi a cui si contrappone l’elemento individualista.
    Evoluzionisticamente, questi due aspetti sono in continua lotta tra loro. L’uomo “cooperativo” combatte contro l’uomo “egoista”. Non v’è motivo predeterminato o “romantico” perché dobbiamo considerare uno meglio dell’altro. La prevalenza verrà determinata dalle circostanze: come ogni fattore evoluzionistico, vince sempre l’opzione giusta al momento giusto. Non è poi detto che quella che è un’opzione giusta in un certo momento, lo sia anche in un altro. Cosicché, l’evoluzione dell’uomo in senso “cooperativistico” potrebbe anche determinarne l’estinzione, al mutare delle condizioni. Spero di essere stato sufficientemente chiaro e in caso contrario mi riservo di esplicitare meglio il mio pensiero.

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