IL PRIMATO DELLA CHIESA

auschwitz

"Il rischio è quello di sostituire Auschwitz al Calvario."

Nel post precedente, il commento di Luigi Copertino si chiudeva con questa frase. Nel successivo chiarimento, il medesimo concetto veniva ribadito. Personalmente, odio qualsiasi retorica. Trovo spiacevoli perchè troppo spesso solo strumentali molti discorsi che tentano di riempire i propri vuoti  ora col Risorgimento, ora con la Resistenza. Figuriamoci quando lo fanno con la Shoah, che fu tragedia inenarrabile alla quale sembra precluso un qualsiasi connotato razionale.

Eppure,  una frase del genere, peraltro pronunciata da uno che, come Copertino, si dichiara fervente "cattolico" – parola che dovrebbe sottendere soprattutto l’adesione a una serie di valori morali, ampiamenti diffusi e accettati – mi lascia pieno di dubbioso sconcerto. Di fronte a 6 milioni di morti trucidati da una delle troppe aberrazioni del pensiero  cui la storia ci allerta, il primo sentimento di chi pretenda d’ispirarsi alla figura del Cristo e di testimoniarne la novella anche agli altri, non può e non deve essere così meschino come lo è il mero sentirsi defraudato nel primato dei martiri.   

11 Risposte a “IL PRIMATO DELLA CHIESA”

  1. Caro Lector,

    credo che tu abbia drasticamente frainteso il senso degli interventi di Copertino nel mio blog. Il suo era un discorso prima di tutto intra-ecclesiale. La frase che hai citato non intende comparare la sofferenza di Cristo con quella delle vittime dei campi di concentramento nazisti (che assurdità sarebbe?), ma riflettere sul significato ch’esse possono assumere per cristiani ed ebrei. Per un cristiano, è ovvio che soltanto la morte di Cristo ha un valore redentivo. Presentare le vittime del genocidio nazista come vittime sacrificali predestinate, come si fa in certe elaborazioni teologiche (e teologico-politiche) di area fondamentalista protestante, o (più comprensibilmente) in alcune correnti del sionismo radicale, non solo è aberrante per le vittime stesse, perché le rende strumentali a disegni politici, ma è anche inaccettabile, perché sottrae il fenomeno da un’analisi meramente storica.

    Il presupposto è inaccettabile per un cristiano, com’è naturale, e inaccettabile a maggior ragione per chi voglia comprendere la storia senza interpretazioni meta-storiche. Ebrei e non ebrei sono ovviamente liberi di guardare all’Olocausto (termine coniato da Elie Wiesel, il quale si pentì dell’interpretazione sacrificale che poteva veicolare) come alla prova della natura “messianica” del popolo d’Israele, ci mancherebbe. Ed ebrei e non ebrei sono ugualmente liberi di rifiutare una simile visione, e anzi di sottoporla ad analisi. Che la Shoah sia un momento fondativo nella travagliata storia del popolo ebraico è un assunto esplicitamente rifiutato da moltissimi ebrei (posso citare due nomi importanti della filosofia e della storia delle religioni: Hannah Arendt e Jacob Neusner).

    Fare di un intero popolo un “messia delle nazioni” non è, peraltro, una prerogativa soltanto ebraica: potremmo citare l’analoga sacralizzazione delle sofferenze, sofferenze reali, da parte dei nazionalismi europei a partire dall’Ottocento, ad esempio quello polacco (alcuni di questi nazionalismi sfociarono in movimenti apertamente razzisti).

    Da parte mia, posso dire di conoscere molto bene e in prima persona l’ebraismo. Non soltanto per questioni parentali, ma anche perché ho frequentato per anni una Comunità Israelitica (dove ho studiato l’ebraico). Le idee di Rav Kook citate da Copertino le ho udite dalle labbra di un rabbino.

    Tu scrivi di odiare qualunque retorica, ma retorica è appunto intervenire su faccende così delicate per spalleggiare antipatie personali (in questo caso, nei confronti del cattolicesimo); retorica è rubricare sotto “antisemitismo” i pensieri di una persona come Copertino, che conosco personalmente e che posso assicurare lontanissima da qualunque sentimento razzista; retorica, infine, è fare del genocidio degli ebrei una “tragedia inenarrabile alla quale sembra precluso un qualsiasi connotato razionale”, precludendo qualunque riflessione sull’argomento che non segua appunto i dettami del “monumentalismo”. Su queste cose, invece, si può riflettere, si deve riflettere. In una prospettiva “laica”, ancor di più, non si può sacralizzare un evento della storia al punto tale da sottrarlo a qualunque analisi.

    Un saluto.

  2. Saluti a te, Zac.

    Vedi, il senso del mio post risiede proprio nel desiderio di comprendere se l’analisi espressa nel tuo blog da Copertino rappresenti realmente la volontà d’un serio e onesto approccio critico a processi sociali di varia portata che traggono la loro forza e argomento dalla tragedia della Shoah – come asserisci senza tema di smentita in questo tuo commento – oppure risulti più o meno inconsciamente condizionata da un pregiudizio d’appartenenza. Non credere sia semplice per un esterno che, come giustamente dici, non prova particolari simpatie nei confronti del cattolicesimo e, soprattutto, di certe addomesticazioni “curiali” dei fatti di cui la storia ci offre molti esempi. Il tag serve ai raggruppamenti per contenuto all’interno del blog; l’averlo qui utilizzato non sottintendeva l’automatica applicazione di quella particolare etichetta al testo citato.

    Ti ringrazio per l’intervento. Ciao.

  3. Ho molto rispetto per la cultura e sono certo della buona fede di chi ha scritto, ma ritengo in tutta coscienza che non si possono far entrare in ragionamenti dialettici enormi tragedie come la shoa, di fronte alla quale il mio sentimento è di inginocchiarmi e pensare (laicamente o religiosamente, ognuno scelga) alle milioni di storie di sofferenza. Con un rispetto integrale.

    saluti a tutti

    Medita partenze

  4. Sono molto d’accordo con entrambi i capoversi del post. Certi discorsi non possono che ‘puzzare’, visti gli ambienti dove vengono fatti abitualmente.

  5. Ciao Medita, Ciao Herd.

    Vi assicuro che ho letto e riletto gli interventi di Copertino e lo stesso ho fatto con ogni parola del commento di Piccolo Zaccheo. Di quest’ultimo, una frase in particolare mi ha colpito, ma non l’avevo ancora colta in tutta la sua portata quando ho risposto: “Presentare le vittime del genocidio nazista come vittime sacrificali predestinate, come si fa in certe elaborazioni teologiche (e teologico-politiche) di area fondamentalista protestante, o (più comprensibilmente) in alcune correnti del sionismo radicale, non solo è aberrante per le vittime stesse, perché le rende strumentali a disegni politici, ma è anche inaccettabile, perché sottrae il fenomeno da un’analisi meramente storica.” Ma non è lo stesso che ha sempre fatto la Chiesa con il Cristo?

    E’ il solito Matteo 7, 3-5 che pare valga sempre e solo per gli “altri”.

    Oppure, proprio non capisco.

  6. E ci mancherebbe! Se poi uno vuol costruire una religione fondata sull’Olocausto, ribadisco, è liberissimo di farlo. Non avrebbe neppure ansie escatologiche: del resto, la parusia gloriosa, con tanto di giudizio delle Genti e valle del Gehinnom, si è già realizzata in Eretz Israel…

    Con simpatia, vostro puzzone oscurantista con tanto di trave nell’occhio. 😉

  7. Ciao Zac.

    Non credo che in questa sede qualcuno voglia costruire una religione dell’Olocausto. Penso però che l’osservazione più giusta sia quella di Medita (#3): “non si possono far entrare in ragionamenti dialettici enormi tragedie come la shoa”. Personalmente, non riesco a non immedesimarmi in quelle famiglie svegliate nel cuore della notte, i cui componenti venivano freddamente separati, torturati e picchiati, fatti salire su carri bestiame, sottoposti a torture indicibili, nell’indifferenza o nell’ignavia di chi “sapeva” e perfino con la soddisfazione di taluni. Si trattava di sei milioni di “uomini”, non di “ebrei” e ritengo che se la Chiesa li beatificasse tutti come “propri” martiri, non farebbe un gran dispiacere al Cristo. Interrompo qui senza andare oltre, perché so che aborri le polemiche.

    (Consolati, però: con la trave nell’occhio è molto difficile riuscire a scagliare la prima pietra). :-))

    Con altrettanta simpatia.

  8. Siamo al paradosso, però. Beatifichiamo anche i milioni del sistema concentrazionario sovietico, delle pulizie etniche del Novecento, di qualunque vittima di follia omicida? Forse non è chiaro che una cosa è riflettere sulle tragedie della storia, sulle loro cause, sui loro effetti, e ricordarne con giustizia le vittime, altra cosa è promuovere una causa di “beatificazione”: che non significa sancire la condizione beata di chicchessia (su questo, a rigore, l’ultima parola non spetta alla Chiesa ma al buon Dio), né fornire monumenti a chi abbia, pur grandemente e gravemente, sofferto, ma proporre e indicare ai fedeli alcuni esempi di santità cristiana. I quali esempi, peraltro, non passano soltanto attraverso il filtro del martirio. “Martire” significa “testimone”, e nel contesto del cristianesimo qualfica genericamente chi ha versato il sangue per la causa di Cristo. Come dice l’adagio, “non poena, sed causa facit martyrem”. Questo, ovviamente, non significa negare la serietà di altri martirii, o di altri dolori (anche esemplari): sarebbe pura superficialità, o malafede, argomentare in questo modo. Quindi, se non è retorica il discorso che sento, quantomeno è confusione bell’e buona…

    Ciao!

  9. No, Zac. E’ provocazione (bonaria): volontà d’attribuire dignità di testimonianza a qualsiasi tipo di dolore e sofferenza innocente – a prescindere da chi ne sia vittima – contrapposta all’istituzione, che ritiene suo diritto esclusivo il gestire una gerarchia del dolore, assegnando di conseguenza valenza maggiore a quello consapevolmente reso “per la causa”.

  10. Punti di vista, Zac. In un Universo relativo, fortunatamente, c’è ancora posto per tutti.

    Ciao 🙂

    P.S.: “provocatio ad opponendum” non “bubala bubalis”.

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