EHI, DICO A VOI, BRAVA GENTE!

emigranti
INTRODUZIONE
Bel paese, brutta gente
La rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne

La feccia dei pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non potevamo mandare i figli alle scuole dei bianchi in Louisiana. Ci era vietato l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro «questa maledetta razza di assassini». Cercavamo casa schiacciati dalla fama d’essere «sporchi come maiali». Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei paesi d’adozione come cattolici primitivi e un po’ pagani. Ci appendevano alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo «tutti siciliani».

«Bel paese, brutta gente.» Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta l’Europa e scelto dallo scrittore Claus Gatterer come titolo di un romanzo in cui racconta la diffidenza e l’ostilità dei sud-tirolesi verso gli italiani. Oggi raccontiamo a noi stessi, con patriottica ipocrisia, che eravamo «poveri ma belli», che i nostri nonni erano molto diversi dai curdi o dai cingalesi che sbarcano sulle nostre coste, che ci insediavamo senza creare problemi, che nei paesi di immigrazione eravamo ben accolti o ci guadagnavamo comunque subito la stima, il rispetto, l’affetto delle popolazioni locali. Ma non è così.

Certo, la nostra storia collettiva di emigranti – cominciata in tempi lontani se è vero che un proverbio del ‘400 dice che «passeri e fiorentini son per tutto il mondo», che Vasco da Gama incontrava veneziani in quasi tutti i porti dell’India e che Giovanni da Montecorvino trovò nel 1333 un medico milanese a Pechino – è nel complesso positiva. Molto positiva. Basti pensare, per parlare dei soli Stati Uniti, a Filippo Mazzei, che arrivò lì nella seconda metà del Settecento e fu tra gli ispiratori, con la frase «tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti», della Dichiarazione d’indipendenza stesa dal suo amico Thomas Jefferson. A Edoardo Ferraro, che durante la guerra civile fu l’unico generale a comandare una divisione composta totalmente da neri liberati. A padre Carlo Mazzucchelli, che nel 1833 predicava tra i pellerossa e per primo mise per iscritto, con un libro di preghiere, la lingua sioux. A Lorenzo Da Ponte, che dopo aver scritto per Mozart i libretti delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e di Così fan tutte e aver fatto mille altri mestieri, finì a New York dove nel 1819, già vecchio, fondò la cattedra di letteratura italiana al Columbia College, destinato a diventare la Columbia University.

In 27 milioni se ne andarono, nel secolo del grande esodo dal 1876 al 1976. E tantissimi fecero davvero fortuna. Come Amedeo Obici, che partì da Le Havre a undici anni e sgobbando come un matto diventò il re delle noccioline americane: «Mister Peanuts». O Giovanni Giol, che dopo aver fatto un sacco di soldi col vino in Argentina rientrò e comprò chilometri di buona terra nel Veneto dando all’immensa azienda agricola il nome di «Mendoza». O Geremia Lunardelli che, come racconta Ulderico Bernardi in Addio Patria arrivò in Brasile senza una lira e finì per affermarsi in pochi anni come il re del caffè carioca, quindi mondiale. O ancora Fiorello La Guardia. che dopo essersi fatto la scorza dura in Arizona (ricordò per tutta la vita l’insulto di un razzista che deridendo gli ambulanti italiani che giravano con l’organetto gli aveva gridato: «Ehi, Fiorello, dov’è la scimmia?») diventò il più popolare dei sindaci di New York.

Quelli sì, li ricordiamo. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito, che grazie alla serenità guadagnata col raggiungimento del benessere non ci hanno fatto pesare l’ottuso e indecente silenzio dal quale sono sempre stati accompagnati. Gli altri no. Quelli che non ce l’hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbiamo perduto 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine. Soprattutto nell’Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista.

[…]

Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. La straordinaria dimostrazione di forza, di bravura e di resistenza dei nostri contadini in Brasile o in Argentina. Le curiosità di città come Nova Milano o Nova Trento, sparse qua e là ma soprattutto negli Usa dove si contano due Napoli, quattro Venezia e Palermo, cinque Roma. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili l’uno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di uno stuolo di attori da Rodolfo Valentino a Robert de Niro, da Ann Bancroft (all’anagrafe Anna Maria Italiano) a Leonardo Di Caprio. La generosità delle rimesse dei veneti e dei friulani che hanno dato il via al miracolo del Nordest. La stima conquistata alla Volkswagen dai capireparto siciliani o calabresi. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito l’idea che noi eravamo diversi. Di più: eravamo migliori.

Non è così. Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. «Loro» sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. «Loro» si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che «gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». «Loro» vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all’asta nei mercati d’oltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con l’accusa di rubare il lavoro agli altri. Importano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto.

Fanno troppi figli rispetto alla media italiana mettendo a rischio i nostri equilibri demografici? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri. Basti leggere i reportage sugli Usa della giornalista Amy Bernardy, i libri sull’Australia di Tito Cecilia o Brasile per sempre di Francesca Massarotto. La quale racconta che i nostri emigrati facevano in media 8,25 figli a coppia ma che nel Rio Grande do Sul «ne mettevano al mondo fino a 10, 12 e anche 15 così com’era nelle campagne del Veneto, del Friuli e del Trentino».

Perfino l’accusa più nuova dopo l’11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono «un sacco di terroristi», è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Boda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottant’anni prima di Osama Bin Laden.

[…]

E in questa doppia versione dei fatti può essere riassunta tutta la storia defl’emigrazione italiana. Una storia carica di verità e di bugie. In cui non sempre puoi dire chi avesse ragione e chi torto. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare d’avere importato noi negli States la mafia e la camorra. La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E se andiamo a ricostruire l’altra metà della nostra storia, si vedrà che l’unica vera e sostanziale differenza tra «noi» allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto.

Detto questo, per carità: alla larga dal buonismo, dall’apertura totale delle frontiere, dall’esaltazione scriteriata del melting pot, dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida di tutte le culture. Ma alla larga più ancora dal razzismo. Dal fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta, monta in una società che ha rimosso una parte del suo passato. Certo, un paese è di chi lo abita, lo ha costruito, lo ha modellato su misura della sua storia, dei suoi costumi, delle sue convinzioni politiche e religiose. Di più: ogni popolo ha il diritto, in linea di principio ed entro certi limiti, di essere padrone in casa propria. E dunque di decidere, per mantenere l’equilibrio a suo parere corretto, se far entrare nuovi ospiti e quanti. Di più ancora: in nome di questo equilibrio e di valori condivisi (la democrazia, il rispetto della donna, la laicità dello stato, l’uguaglianza di tutti gli uomini…) può arrivare perfino a decidere una politica delle quote che privilegi (laicamente) questa o quella componente. In un mondo di diffusa illegalità come il nostro, possono essere invocate anche le impronte digitali, i registri degli arrivi, la sorveglianza assidua delle minoranze a rischio, l’espulsione dei delinquenti, la mano pesante con chi sbaglia.

La xenofobia, però, è un’altra cosa. «Ma perché questa parola deve avere un significato negativo?», ha sbuffato testualmente Silvio Berlusconi a Porta a Porta nel maggio 2002. Gli risponde il vocabolario Treccani: «Xenofobia: sentimento di avversione per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti razzistici e azioni di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi». Più sbrigativo ancora il significato di xenofobo: «Chi nutre odio o avversione indiscriminata verso tutti gli stranieri».

Nessuna confusione. Una cosa è la legittima scelta di un paese di mantenere la propria dimensione, le proprie regole, i propri equilibri, un’altra giocare sporco sui sentimenti sporchi dicendo come Umberto Bossi che «nei prossimi dieci anni porteranno in Padania 13 o 15 milioni di

[…]

3 Risposte a “EHI, DICO A VOI, BRAVA GENTE!”

  1. …al solito; solo designazioni che ci fanno pensare di essere italiani, americani, cinesi, indiani….

    Frontiere mentali prima di quelle materiali, passaporti mentali prima di quelli materiali……e la giostra gira….e noi sopra; oggi da italiano e domani da albanese…

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