Apologetica neo-cattolica (I)

Ancora a proposito della scarsa lucidità espressa dagli intellettuali neo-cattolici nel dibattito pubblico. L’uso negligente dell’argomentazione razionale non è sorprendente, visto che il “catholic pride” dell’ultimo decennio assolve a una funzione fondamentalmente identitaria, di carattere acritico ed emotivo. Gran parte delle persone attratte da questo nuovo “orgoglio cattolico” in realtà non hanno alcun bisogno del cattolicesimo, ma hanno una fortissima necessità dell’orgoglio, di un orgoglio qualsiasi, di una comunità dei puri di cui sentirsi parte (in passato svolgevano una funzione analoga anche ideologie e partiti secolari). E alla demarcazione di confini, alla costruzione di comunità di questo genere sembra servire più un appello alle emozioni e a immagini confuse che un uso rigoroso della ragione. Da questo punto di vista c’è una grande differenza tra la tradizione intellettuale cattolica (si pensi alla inflessibile razionalità argomentativa dei dibattiti scolastici) [1] e questo neo-cattolicesimo disinformato, sciatto e declamatorio.

È possibile ritrovare alcuni dei tratti di questo stile di pensiero in una recensione critica in cui mi sono imbattuto recentemente. La stroncatura riguarda l’ultimo libro di Piergiorgio Odifreddi, ma l’oggetto della recensione non ha, ai fini del mio discorso, grande importanza. L’autore è Paolo Martino, docente di linguistica in un’università confessionale di Roma.
Il testo è stata oggetto di un esame approfondito in uno dei blog di Antonio Caracciolo, che insegna filosofia del diritto alla Sapienza.  
Pur avendo letto con interesse le osservazioni di Caracciolo, e le risposte di Paolo Martino (che si rivela un integralista in fondo abbastanza simpatico), credo che alcuni punti del testo meritino un’attenzione più puntuale, in quanto evidenziano  in modo esemplare il genere di presupposti inconsistenti che innervano i confusi e aggressivi discorsi di autoaffermazione del neo-cattolicesimo.

Pensavo di esporre le mie osservazioni critiche in due o tre parti. Ecco qui la prima parte, in un post comunque piuttosto sovradimensionato.
Le citazioni sono riportate in grassetto corsivo.

I cristiani avrebbero fondato la civiltà moderna insegnando ai popoli a leggere e a scrivere?  Cretinate!

La domanda, che vorrebbe essere retorica e spiritosa, in realtà è assolutamente fuorviante.

Innanzitutto è una sciocchezza fattuale. Non sono stati affatto “i cristiani” che hanno insegnato “ai popoli” a leggere e a scrivere (offrendo così un presupposto indispensabile per la nascita di ogni civiltà “moderna”) ma eventualmente i “pagani” (a cominciare dai sumeri, e poi tutti gli altri: fenici, greci, romani, e più a est indiani, cinesi etc.).

In ogni caso, al di là della macroscopica imprecisione storica, qui viene insinuata una conclusione ideologica del tutto fallace. 

Sembra che l’asserita funzione alfabetizzatrice dei “cristiani” dovrebbe rivalutare anche le loro convinzioni metafisiche, renderle meno sciocche o assurde.
Che non ci sia nesso tra la funzione alfabetizzatrice e il valore delle credenze di un gruppo è mostrato proprio, con estrema chiarezza, dal fatto storico-empirico che i gruppi ideologici che hanno inventato e donato (o imposto) al mondo le tecniche della scrittura erano “pagani”. Oggi né i cristiani né i razionalisti sentono di dover considerare con particolare indulgenza le speculazioni religiose dei sumeri o dei fenici per il fatto che usiamo tecniche di scrittura sviluppate dalle loro culture.

Potrebbe essere utile comunque riflettere sulla definizione di “pagani”, con cui ci siamo riferiti a sumeri e fenici, per percepire quanto in realtà sia assurdo attribuire a merito di un’ideologia religiosa (“il cristianesimo” o il “paganesimo” etc.) l’elaborazione e la trasmissione di particolari tecniche e pratiche culturali. Né il valore di un’ideologia (religiosa) si giudica in base a questi criteri, né le tecniche vengono (in generale) diffuse dai credenti in quanto “credenti”. 

Comunque l’autore della recensione non è chiaro: forse per “popoli” intende parlare dei popoli germanici (e slavi) delle Völkerwanderungen? In tal caso appare del tutto ovvio che, visto che la religione ormai unica ammessa nell’(ex-) impero romano era quella “cristiana”, dire che i germani (o gli slavi) hanno imparato la scrittura dai “romani” (o dai “greci”) equivale a dire che l’hanno appresa dai “cristiani”. Ma i germani non l’hanno appresa dai cristiani in quanto cristiani, bensì in quanto sono venuti a contatto con culture alfabetizzate, “romane” o “greche” (diventate in quei secoli “cristiane”).

Oppure il recensore intende dire che le scuole medievali insegnavano alla popolazione a leggere e scrivere? Questo è un punto estremamente problematico, perché non si trattava affatto di un’istruzione di massa – non si trattava di “popoli” – ma solo di una piccolissima percentuale della popolazione. A questo proposito si può osservare peraltro che alcuni “cristiani” –  ma si è ormai già in epoca quasi moderna – hanno fatto un po’ meglio di altri in questa diffusione dell’alfabetizzazione. In particolare, per loro ragioni teologiche, i cosiddetti “protestanti” hanno fatto molto meglio dei cosiddetti “cattolici” o “ortodossi”. Di fatto, in molti paesi “cattolici” (tra cui l’Italia), fino a modernità inoltrata i livelli di analfabetismo erano altissimi.

Il monachesimo avrebbe attuato il salvataggio della civiltà classica consegnandola alla modernità? Macché.

In realtà il monachesimo ha salvato soprattutto alcuni testi. Si potrebbe osservare in primo luogo che “una civiltà” è fatta anche di strade, reti fognarie, sistemi di irrigazione, urbanistica, tecniche edilizie, istituzioni giuridiche, e politiche, di pratiche sessuali, di norme per la regolamentazione dei rapporti sociali dentro una famiglia, di idee e pratiche economiche, scientifiche, musicali etc. Il monachesimo non ha salvato tutto questo. Per ragioni strutturali, certamente del tutto comprensibili, dal punto di vista dell’ideologia di riferimento dei monaci, ma non si può proprio usare la formula retorica “il monachesimo ha salvato una civiltà”. Dubito anche che chiunque possa fare una cosa così enorme in modo volontaristico: il non “aver salvato la civiltà classica” non può essere certo imputato ai monaci come frutto della loro malafede, ma attribuirgli al contrario (in toni trionfalistici) l’impossibile, ebbene questo è gravemente mistificatorio.

Volendo, si potrebbe invece osservare quanto quei monaci hanno contribuito a creare di nuovo: nuovi modi di comporre ed eseguire musica (a volte molto bella), nuovi modi di organizzare piccole comunità, nuovi modi di lavorare la terra ecc. Ma tutto questo i monaci  l’hanno fatto non certo in quanto erano “cristiani”. L’hanno fatto invece, semplicemente, in quanto esseri umani, animali intelligenti, curiosi e ingegnosi. Esattamente come altri individui che negli stessi anni si trovavano in Cina o altrove, e lì a loro volta creavano musica (anche in questo caso a volte molto bella), nuovi modi di organizzare comunità, nuove tecniche agricole etc.
Non c’è alcun nesso tra l’apportare qualche miglioria alla coltivazione con l’aratro e la convinzione che il contenuto del credo niceno sia vero. Allo stesso modo, le imponenti terrazze per la coltivazione del riso in Estremo Oriente non sono dimostrazioni della forza di verità dell’ideologia confuciana o di quella taoista, ma della (certo relativa, a volte risibile, a volte commovente) potenza dell’intelligenza e della tenacia degli individui della specie Homo sapiens, della forza della cooperazione sociale.

Per riassumere si potrebbe dire che, in ogni caso, qualsiasi salvataggio di testi scientifici o letterari da parte di persone che fanno riferimento a una certa ideologia non ci deve precludere la possibilità di criticare come ridicole, aberranti o superstiziose tutte le convinzioni e pratiche di quell’ideologia che, a un più attento esame, si rivelano tali (lo stesso discorso vale per qualsiasi ideologia, anche politica o secolarista: islamica, induista, animista, materialista etc.).

Una teoria interminabile di personaggi, da quel poveretto di Francesco d’Assisi a quel burino di Benedetto da Norcia, da quel cretino di Dante Alighieri a quel credulone di Tommaso d’Aquino […]

Trascurando qui il doppio senso etimologico di Odifreddi (cretino/cristiano), effettivamente non molto spiritoso, ma considerando i termini nel loro significato usuale, è chiaro che si tratta di “cretini” e “creduloni” nel senso in cui si può dirlo di Céline, o di Lukács. Questo non significa che tutto il loro lavoro sia privo di interesse, ma che in alcune delle loro credenze – a volte persino in quelle che risultano assolutamente fondamentali per caratterizzare il loro stesso lavoro – Dante Alighieri, Tommaso d’Aquino, Céline, Lukács sono stati degli irresponsabili, dei creduloni e a volte proprio dei cretini. Non basta saper scrivere un libro o progettare un aeroplano per essere immuni dalla stupidità in ogni ambito delle proprie credenze. Un intellettuale non è un essere immune da convinzioni idiote – anzi … 

[…] milioni, miliardi di persone hanno perso il loro tempo a pregare, immersi com’erano nell’ignoranza.

Ebbene sì. Del resto questa convinzione è propria anche delle tradizioni religiose monoteiste quando si tratta di pratiche, riti e devozioni rivolte a divinità – o spiriti, forze etc. – diversi dal proprio dio: così per esempio, per il cattolicesimo preconciliare, miliardi di persone hanno perso il loro tempo a pregare “dèi falsi e bugiardi”, immersi com’erano nell’ignoranza – anche se tra queste persone immerse nell’ignoranza [intendi: circa le questioni religiose – questo inciso va ripetuto in modo puntiglioso, per evitare di mancare l’obiettivo vero della critica, che non riguarda le facoltà cognitive, affettive o genericamente “umane” dei “credenti”] vi erano i filosofi greci oppure dei geni del calibro di Virgilio – dei quali però appunto non tutto doveva essere considerato da buttare, ma si poteva continuare a trovare straordinario per esempio “lo bello stile” etc.

Si potrebbe certo considerare l’intera questione dal punto di vista di Wittgenstein, che nelle Note sul "Ramo d’oro" di Frazer osservava:

"Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori. Allora Agostino era in errore, quando in ogni pagina delle Confessioni invoca Dio? Ma – si può dire – se non errava Agostino, errava però il santo buddista, o qualunque altro, la cui religione esprimesse concezioni affatto diverse. Nessuno di essi invece sbagliava, se non quando enunciava una teoria." (tr. it., pp.17-18)

In questo modo però, se da una parte si affranca la preghiera di miliardi di persone dal sospetto dell’ignoranza e dell’errore, dall’altra si perde ogni possibilità di far valere come indice di verità il loro comportamento. Anzi, le stesse cifre ("milioni, miliardi") smarriscono ogni importanza apologetica (tanto più quando si tratta della pretesa di verità di una particolare confessione "religiosa").

Veramente qualche perplessità rimane nel comune mortale, che scienziato non è: come facevano  ad esempio, quei cretini di Galileo, Campanella, Bruno, ecc., che incapparono nei rigori della Chiesa, a credere in Dio?

Il recensore dovrebbe farsi lo stesso genere di domande per intellettuali, artisti etc. che hanno creduto in modo dogmatico a una qualche – dal nostro punto di vista attuale – assurdità politica, come il comunismo, il fascismo, l’antisemitismo, il giacobinismo e così via.
Non solo, potrebbe poi riflettere su quei cretini di x, y, z “che incapparono nei rigori del” Partito, e continuarono a credere nell’ideologia comunista, nazista, maoista, giacobina etc. Sul "dio" di alcuni di questi filosofi vedi poi qui sotto.

E, dopotutto, lo stesso Aristotele non era credente?

Al di là della formulazione imprecisa, e della grossolana fallacia filosofico-religiosa sottesa alla domanda [in generale; del resto l’oggetto principale della critica nel libro di Odifreddi è il cristianesimo, che non è una qualche vaga forma di deismo: il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe” non è in alcun modo un dio dei filosofi], qui l’obiezione principale è semplicemente: che c’entra? Per un laico, razionalista, umanista, Aristotele non è in alcun modo infallibile. Se il razionalista considera interessanti alcune delle riflessioni di Aristotele, egli le considera tali intrinsecamente (o storicamente), non perché provengono da Aristotele. Si tratta di una prospettiva diversa da quella del fedele con i suoi testi “Sacri”. Non si può fare quel genere di obiezioni a un razionalista, neppure se condividesse i nove decimi delle idee di Aristotele.

(continua)

[1] “Razionalità argomentativa” non significa naturalmente che i contenuti fossero rilevanti. Spesso non lo erano affatto.

2 Risposte a “Apologetica neo-cattolica (I)”

  1. IMPORTANTE:

    Una persona eccezionale, che mi ha chiesto espressamente di rimanere anonima, per un breve periodo s’era affacciata al mondo dei blog, forse per sperimentare una forma comunicativa diversa da quelle tradizionali. Non trovando soddisfazione in questa particolare dimensione del sociale, per molte e fondate ragioni, ha risolto di concludere tale esperienza, chiudendo il sito. Per salvaguardare almeno una traccia minima del suo ragguardevole lavoro, abbiamo concordato di riportare qui un post, diviso in due parti che, prendendo a spunto il dibattito a distanza tra Antonio Caracciolo e Paolo Martino avente ad oggetto il libro di Odifreddi “Perché non possiamo essere cristiani”, costituisce un significativo commento critico al libro stesso. Le due parti del post continueranno perciò così ad essere linkabili dalla homepage di Odifreddi su ViaLattea. ( http://www.vialattea.net/odifreddi/ )

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